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Lingue, culture, esseri umani

Le lingue non esistono in natura: vivono all'interno delle collettività, ne esprimono e trasmettono i valori culturali e si trasformano attraverso l'uso e le pratiche di vita delle comunità. I valori sono intrinsecamente connessi con la lingua a tal punto, da essere presenti al di fuori della esplicita consapevolezza da parte dei parlanti. Anzi, una scarsa consapevolezza critica, da parte di chi ne è portatore, li proietta addirittura in un orizzonte esterno all'uomo, alla storia e alla cultura, oggettivandoli senza più percepirli come realtà in divenire e prodotte dall'uomo. Un atteggiamento paragonabile a quello del bambino che dice "fa schifo" di ciò che non gli piace, e dunque individua la causa della ripugnanza nella cosa invece che nel rapporto fra lui e la cosa. Così anche noi adulti ci troviamo talvolta a definire "ripugnanti" cose che ripugnano a noi ma van benissimo per altri: a cominciare da ingenui e quasi innocenti sciovinismi gastronomici per arrivare a forme di intolleranza gravemente lesive dell'altrui dignità e libertà.

Per una comunità la lingua condivisa è il codice di una cultura condivisa, ma mentre la lingua, come sistema di segni, è formalizzata e verificabile (un codice appunto) il rimando dal significante al significato apre problemi di grande complessità, che risucchiano alla fine anche quel po' di certezza che la tangibilità del segno, cioè il parlare la stessa lingua, sembrava garantire: se la cultura può essere definita come "un sistema di valori storicamente derivato di espliciti e impliciti progetti di vita che tendono ad esser condivisi da tutti i membri di un gruppo o da quelli specificamente designati" (Kluckholn e Kelly, 1945), è pur vero anche che tale partecipazione è largamente implicita e dunque, quando si parla e si agisce, si rischia di essere spinti da forze e contraddizioni di cui non siamo consapevoli... in altri termini ci si sente mobilitati e non si sa perché, mossi da spinte inconsce che trovano espressione in modelli di comportamento di cui non siamo criticamente padroni.

Non è più possibile, se mai lo è stato, credere ragionevolmente che la nostra cultura sia "migliore" delle altre, intese come arretrate, imperfette, primitive o degenerate... basta considerare l'antropologia da un lato e dall'altro la nostra storia di Italiani con alle spalle vicende di emigrazione e di umiliazioni cocenti. Queste due prospettive, quella antropologica e quella della memoria storica, sono fondamentali se vogliamo capire meglio il mondo in questa sua difficile fase, in particolare rispetto al tema dell'incontro con il diverso che, volenti o nolenti, sempre più ci riguarda nel nostro qui e ora.

Dopo un periodo lunghissimo in cui gli altri erano sempre lontani, oggetto di conquista ed esplorazione, ora gli altri premono ai nostri confini e li varcano e si mescolano a noi: molto si può dire e si dice sul fenomeno crescente e inarrestabile delle migrazioni, e da molti vertici di osservazione che non è qui il caso di indagare e nemmeno elencare. Qui si cerca di prendere atto di ciò che sta già accadendo, che è già accaduto: la nostra società ha perduto quel carattere di omogeneità culturale che pretendeva di avere per il fatto di essere tutti italiani e parlare tutti la stessa lingua: italianità significava condividere gli stessi valori di civiltà, aver combattuto le stesse guerre risorgimentali, essere i fieri e legittimi eredi di questo e di quello fino a identificarsi con Roma che rivendica l'impero (anche se poi le contraddizioni c'erano e grandi, la storia non era stata così unanimemente vissuta e scritta, i "valori" non erano così coerenti e coerentemente sentiti, i conflitti all'interno dell'organizzazione della società e perfino nella psiche degli individui erano forti, cittadini di regioni lontane spesso non si capivano fra di loro per usi, costumi e perfino lingua...).

In Italia centinaia di migliaia di "stranieri" vivono e lavorano con gli "Italiani", altri ne stanno arrivando e arriveranno... e molti non parlano italiano: basterà insegnarglielo? Se è vero che una lingua è inestricabilmente legata alla cultura del popolo che con tale lingua si esprime, se è vero che non si appartiene pienamente alla comunità nazionale italiana se non si parla italiano, basta per converso parlare italiano per partecipare alla comunità italiana e condividerne la cultura? E quanto fluente deve essere questa capacità linguistica? La risposta è no, ovviamente, quindi il problema è e resta quello della convivenza di persone portatrici di diverse culture: fermo restando che chi vive qui deve essere messo in condizione di capire ed essere capito qualunque sia la sua lingua e cultura di appartenenza, e deve obbedire alle leggi italiane qualunque sia la tradizione giuridica da cui proviene.

Già questi due punti sono complessi da gestire, e tuttavia si possono individuare con una certa chiarezza nelle loro articolazioni: si tratta pur sempre di comportamenti da porre in atto, le strutture della lingua e le norme di legge possono essere definite e apprese con una certa precisione. Anche se si aprirebbero scenari più sfumati quando qualcuno chiedesse perché parlare italiano, perché obbedire a leggi che trova ingiuste: e la risposta "se non ti va bene torna al tuo paese" elude il problema ponendolo su un piano muscolare, visto che chi è ricco e potente parla la lingua che gli pare e in fondo sembra talora obbedire alle leggi quando e come gli pare (quod licet Jovi non licet bovi).

Ma il problema vero si pone nelle implicazioni dell'incontro di culture diverse, visto che alla cultura si appartiene e non la si può scegliere: essa è parte dell'identità non come dato biologico ma come lenta costruzione che incomincia nella stessa vita intrauterina, si perfeziona durante lo sviluppo e poi si trasforma per tutta la vita nell'interazione con i contesti relazionali. La cultura ci permette di vivere in relazione con il mondo senza l'ausilio dell'apparato di saperi innati che gli animali hanno: gli istinti, che si sono evoluti per centinaia di milioni di anni nella storia della materia vivente, attivano negli animali comportamenti fissi, appresi dalla specie e non dagli individui, mentre in noi umani le nostre pulsioni possono trovare soddisfazione attuando fantasie e progetti che funzionano solo se sono adeguati alla nostra realtà, che non è più, da alcune centinaia di migliaia di anni, naturale ma culturale. Ogni animale, quando ha fame, cerca il cibo secondo il modo tipico della sua specie; noi, quando abbiamo fame, apriamo il frigorifero o cerchiamo un ristorante.

La natura "culturale" della specie umana ci rende unici, flessibili e adattabili ma fragili e contraddittori: e non si può tornare indietro, anche se talvolta guardiamo con rimpianto la meravigliosa spontaneità (diciamo infatti naturalezza) degli animali, e non ci resta che affinare le nostra peculiarità, la nostra capacità di riflettere e scegliere, assumendoci la responsabilità di apprendere dall'esperienza e dalla relazione continua con l'altro da noi, nel senso sia del mondo naturale sia dell'altro umano. Se è dunque vero che la cultura, sistema di strumenti materiali e immateriali che ci consentono di gestire la difficoltà di vivere, può essere intesa come una serie di "protesi" capace di connettere la nostra realtà intima e profonda con il mondo esterno (P. Coppo, 2003), la sua peculiarità ineludibile di costrutto umano esige che l'altro sia riconosciuto come portatore di un sistema di valori con cui si è in relazione, che ci piaccia o no. Di questo si deve prendere atto se non si vuole restare preda di pericolosi deliri di negazione, che funzionano nei tempi brevi o medio brevi, ma alla lunga collassano come tutta la storia umana ci dimostra.

Di fatto le migrazioni sono una costante della storia umana, a partire da una lettura del mito di Adamo ed Eva che li veda come profughi dall'Eden, ed è un continuo intrecciarsi di sangui e culture che ora è a livello planetario. Le conseguenze sono e sono sempre state complesse e contraddittorie, perché complessi e contraddittori sono i modi in cui è vissuto il confronto con l'altro; se è vero che riconoscersi simili, cioè ricondurre il nuovo al già noto, ci rassicura, è altrettanto vero che alla lunga produce sazietà e noia, e la stessa maturazione dell'individuo nell'età evolutiva è vivacemente giocata proprio in una sofferta sovrapposizione di spinte a mettersi in gioco per allargare le proprie cerchie di identificazione e spinte a difendere le certezze acquisite. Restando nell'esempio fatto sopra, Adamo ed Eva misero in gioco tutte le sicurezze per esplorare l'unica area di esistenza che sentissero possibile conquistare; se noi, nel bene e nel male, siamo nella storia, cioè in movimento, è perché non restiamo fermi, e muovendoci diamo il nostro contributo a processi di trasformazione, dai quali non possiamo chiamarci fuori.

Fra i possibili atteggiamenti verso l'altro mi piace individuarne tre, che possiamo chiamare xenofobia, xenofilia e xenosofia: tutti e tre hanno a che fare con la relazione con l'altro, con la relazione con se stessi e con i conflitti all'interno dell'individuo e della società. L'insicurezza e la bassa autostima provocano paura nella relazione con l'altro, il confronto essendo occasione di fantasie di inferiorità, e attivano meccanismi di difesa che vanno dalla svalutazione dell'altro all'aggressività fisica minacciata e agita (nel caso della xenofobia), a forme di identificazione malriuscita e immatura (nel caso della xenofilia), che ha molto più i caratteri dell'imitazione: identificazione riuscita è per definizione quella del bambino che introietta le figure significative della sua vita e in esse trova gli assi di costruzione della sua personalità in crescita, dopo aver superato quella fase di ammirata imitazione che lo porta a guardare il libro, magari tenendolo a rovescio, come vede fare dai genitori quando leggono. Il terzo atteggiamento, la xenosofia, è una scelta di metodo nella relazione, una progettualità conquistata e da conquistare nella pratica di un conoscere se stesso che non si accontenta di chiudersi in un ormai opinabile principio di identità e, dunque, si apre alla relazione e alla conoscenza con l'altro, il diverso, lo straniero (tutto questo indica xenos) facendone il proprio prossimo.

Queste forme di reazione coesistono e si intrecciano in ognuno di noi, perché noi umani siamo complessi contraddittori e conflittuali: quanti di coloro che si commuovono in questi giorni per la vicenda dell'agnello Lamberto mangeranno la carne di altri agnelli nelle prossime feste! Si intrecciano dentro ognuno di noi e nella comunità in cui viviamo, e sento spesso di persone che da un lato dicono cose terribili sugli immigrati, dall'altro non si tirano indietro quando c'è concretamente da dare spazio a quel senso di solidarietà che pure abita nell'aiuola che ci fa tanto feroci.

Abbiamo visto che si può definire la cultura come una serie di protesi che consentono un contatto fra il mondo interno e la realtà esterna: se dunque è l'apparato psichico la sede del motore emotivo dell'individuo, è la cultura a rendere possibili quelle rappresentazioni e fantasie che cerchiamo di realizzare nell'agire. Comprendere l'altro significa riuscire a considerare le cose dal suo punto di vista, e ciò è possibile solo se tale punto di vista è rispettato, se dunque nel confronto non si cerca di avere ragione ma di capire le ragioni di ognuno.

Ci è probabilmente facile comprendere come il legittimo appetito della maggior parte di noi possa far immaginare un panino ben imbottito di prosciutto, mentre la stessa cosa non accade certo con la maggior parte dei cittadini di Teheran o di Tel Aviv. Più difficile per noi è accogliere certi modi di esprimere dolore, rabbia e ribellione in culture diverse dalla nostra: del resto già ai suoi tempi Kraepelin ebbe del filo da torcere nel tentativo di "classificare" l'amok dei malesi.

Un efficace esempio di come la sofferenza non possa essere facilmente compresa fuori dagli schemi culturali che le danno rappresentabilità (e dunque quanto sia difficile portare aiuto) è quello descritto da Manuela Tartari (2009) : "La prima crisi dissociativa di un giovane senegalese che improvvisamente parla con i morti e ne sente le voci. Si dovrebbe tener conto del fatto che le voci dei morti sono in Africa centrale un segno culturalmente codificato per esprimere forme intense di lutto e quindi chiedersi che cosa intenda concretamente il giovane che dice di sentire le voci, se stia entrando in una crisi psicotica, oppure faccia uso di un sintomo "collettivo"- come potrebbe essere per noi il dire che si ha "l'esaurimento nervoso". A quest'ultima affermazione nessun curante darebbe un significato reale e tutti sarebbero d'accordo a considerarne l'aspetto metaforico, mentre le voci dei morti sono per noi già un segno patognomonico grave."

Concludo ricordando che, in un'epoca molto vicina, non solo l'Italia produceva ancora una forte migrazione all'estero, ma avevamo una massiccia migrazione interna con molti problemi simili a quelli che pone oggi la migrazione internazionale. Come se non bastasse, l'alterità culturale era tale da fornire materia a studi come quelli di Ernesto De Martino: oggi i giovani si divertono ballando la pizzica (e fanno bene) e si fanno nel Salento le feste della taranta, ma pochi ricordano che ancora non molti decenni fa le tarantate esprimevano, con un codice diverso, la stessa pena che le pazienti di Charcot e Freud esprimevano con i sintomi isterici. Come scriveva Gramsci, la storia è maestra di vita ma ha pochi allievi.

Nel 2003 aveva ancora attualità il problema della migrazione interna e delle tensioni che provocava: propongo la lettura di una pagina leggera e arguta che coglie il passaggio, in Italia, da un'epoca ad un'altra.

Razzismo e integrazione

Si fa un gran parlare, in questi ultimi tempi, di extracomunitari, di manifestazioni razziste per la loro espulsione, di ronde padane per il controllo del territorio e così via.

Vuole sapere che ne penso? Beh, io sono felice che siano arrivati tutti questi magrebini, albanesi, senegalesi e polacchi. Felicissimo. Perché adesso sono loro ad aver occupato l'ultimo gradino in fondo alla scala sociale, mentre noi emigrati meridionali siamo stati promossi al penultimo. È una

vera pacchia! Ora sono i marocchini a vendere la droga, e non più i calabresi. Sono gli algerini a taccheggiare sugli autobus, invece dei pugliesi. E i mafiosi? Macché siciliani, ora sono tutti kosovari. E anche le puttane sui viali, mi creda, sono tutte albanesi e nigeriane, e non c'è più una napoletana manco a pagarla. Ora sono loro a buttare le cartacce per terra, seguiti dagli sguardi di disprezzo di noi emigrati di lungo corso, che per queste cazzate siamo diventati più intolleranti dei padani. L'Italia unita l'avranno fatta pure i carbonari e i garibaldini, ma a unire davvero gli italiani del Nord e del Sud è stato, finalmente, solo il razzismo verso gli immigrati.

Perfino io, certe volte, guardo infastidito i giovani olivastri che ai semafori vogliono a tutti i costi lavarmi il parabrezza. Eppure, 25 anni fa, anche io giravo per Bologna con un secchio pieno d'acqua e un raschietto. Pulivo i vetri di alcuni negozi del centro. Ma una cosa credo d'averla capita: ciò che scatena il razzismo è soprattutto la povertà. Una volta, un famosissimo pugile nero, intervistato da un giornalista che gli chiedeva come viveva lui il razzismo dei bianchi, rispose: «È vero, il razzismo è tremendo. Anch'io l'ho provato sulla mia pelle, tanto tempo fa, quando ero giovane, povero e negro».

Anche gli abitanti del mio palazzo, un tempo molto freddini, ora mi salutano più cordialmente, da quando è arrivata una famiglia di filippini che sputa sulle scale e frigge pesci in continuazione, impestando l'aria comune. Adesso i nemici sono loro. Che bellezza! Ma non potevano venire prima?

da Il mite migrante (Francesco Tripodi, Derive Approdi, 2003)

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