L'imperfezione della coscienza e la fragilità della mente

Febbraio 2024

La coscienza imperfetta e La mente fragile, due libri di Arnaldo Benini. E un bel cortometraggio: Il ricordo di domani, di Davide Petrosino

Nel corso di psicologia e psicoanalisi, che tengo in queste settimane all'Università della Terza Età di Modena, ho letto fra gli altri testi alcune pagine del libro La coscienza imperfetta. Le neuroscienze e il significato della vita, di Arnaldo Benini (2010), i cui primi capitoli sono dedicati (sulla base di una sicura padronanza dei modelli scientifici propri delle neuroscienze) a mostrare come la nostra presenza nel mondo sia in realtà definita dalla rappresentazione che la nostra coscienza ha della realtà esterna, e quanto precario e fragile sia il rapporto fra il mondo in cui viviamo e l'immagine che ne andiamo continuamente costruendo. Per capire i meccanismi della coscienza, è utile studiarla quando il cervello è leso, si legge nella presentazione editoriale del libro, e ad un certo punto l'autore motiva il titolo : "In questo lavoro, dopo un sommario panorama dei dati attuali delle neuroscienze sui meccanismi nervosi della coscienza e della mente, sono illustrati alcuni eventi della coscienza e il modo in cui le neuroscienze li studiano: la coscienza incompleta quando il cervello è leso, la vigilanza senza coscienza (stato vegetativo), la coscienza del dolore fisico, della volontà, del movimento, dello spazio, del tempo, del suono, della musica, del silenzio, il crollo della coscienza e della mente nella demenza. Sono esempi di quel che la coscienza può cercare e trovare dei meccanismi che la determinano, e nello stesso tempo del buio in cui essa rimane. I meccanismi conoscitivi della coscienza rivelano a sé stessi la propria fragilità nei confronti di sé e del mondo." Otto anni più tardi (2028) Benini ha sviluppato questo nel libro La mente fragile. L'enigma dell'Alzheimer. Questo sforzo di comprensione dei limiti intrinseci della mente, nella considerazione di una continuità fra la coscienza "normale" e la coscienza "lesa" in quanto sostenuta da un cervello leso, rimanda a mio parere all'ipotesi freudiana di una differenza quantitativa, e non qualitativa, nei meccanismi psichici dei nevrotici e psicotici e dei "cosiddetti sani": Freud pubblicò nel 1901 "Psicopatologia della vita quotidiana" ed Erich Fromm, affrontando il tema soprattutto dal punto di vista sociologico, fra gli anni '50 e '70' tenne una serie di conferenze che furono raccolte sotto il titolo "I cosiddetti sani. Patologia della normalità". Il pensiero psicoanalitico ha dato un impulso fondamentale ad un processo di trasformazione profonda nella cultura, nelle pratiche cliniche e nelle politiche nei confronti della sofferenza psichica nelle sue forme estreme: i "matti" sono visti come persone fragili che soffrono e non sono più considerate "colpevoli" da stigmatizzare o addirittura punire... ma è stato, è un cammino lungo e faticoso.

Benini si pone in una logica analoga rispetto all'Alzheimer, toccando con rigore scientifico e profonda umanità un tema che spaventa e provoca reazioni spesso scomposte, rigide o irragionevoli. Alla fine del secondo capitolo di La coscienza imperfetta Benini porta alcuni esempi di come la coscienza "lesa" porti a comportamenti incongrui a seconda di come il sistema nervoso sia leso... ma gli ultimi due esempi sono sconvolgenti perché non riguardano la coscienza lesa ma la coscienza cosiddetta integra, sana:

Peer Steinbrück, ministro tedesco delle Finanze all'epoca del crollo delle banche del 2008 in Europa e negli Stati Uniti, racconta che, durante una delle sedute di ministri e funzionari impegnati ad arginare il disastro, Christine Lagarde, ministro francese delle Finanze e ora a capo del Fondo monetario internazionale, gli mandò un biglietto con su scritto: «Differenza fra capitalismo e comunismo. Nel comunismo le banche prima sono statalizzate e poi falliscono. Nel capitalismo prima falliscono poi vengono statalizzate. Scelga lei». Come la civetta di Minerva, che si mette in volo, dice Hegel, quando comincia a far buio, arriviamo sempre in ritardo. Il funzionamento del cervello spiega perché le cose vanno così.
• Tra qualche decennio, ripensando ai primi anni di questo secolo, durante i quali i prezzi dei generi alimentari e i costi dell'energia sono andati alle stelle, la popolazione mondiale è aumentata a dismisura e ha cominciato migrazioni bibliche, uragani e nubifragi hanno travolto intere regioni, la siccità ne ha devastato altre, e spesso le calamità capitavano simultaneamente, la gente si chiederà a che cosa pensassimo noi, che vedevamo capitare tutto questo senza reagire. Se nulla cambierà, alla fine del secolo la popolazione sarà di 10 miliardi di abitanti, troppi per le risorse disponibili. Possibile che non ci si renda conto che i limiti ragionevoli della crescita, del clima, delle risorse naturali sono stati varcati da tempo? Su questa strada gli esseri umani, prevede il biologo Frank Fenner, fra un secolo saranno estinti, e con loro molte altre specie. Anche se quest'apocalittica profezia non dovesse avverarsi, per miliardi di esseri umani la vita è e sarà un inferno.

Tuttavia qui non si tratta di "matti": e allora? Se l'umanità si comporta (si è in fondo sempre comportata) così, vien da pensare a Giovanni Jervis che qualche anno prima intitolava Siamo stupidi? il terzo capitolo del suo libro Pensare dritto, pensare storto (2007) commentando un divertissement dello storico Carlo M. Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana (in Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo, 1998)

Il ricordo di domani, film corto di Davide Petrosino
Non ricordo più da chi l'ho avuta, ma ho la password necessaria per accedere alla visione di questo breve film che ha avuto lusinghieri riconoscimenti critici ma, per ragioni di distribuzione di cui mi sfugge la logica, non può circolare nelle sale pubbliche
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Il film è online in una connessione privata sulla piattaforma Vimeo: per vederlo bisogna cliccare sul seguente collegamento:
ll ricordo di domani
poi inserire, alla richiesta, la password:
@IRDD1993

Questo film mi ha molto toccato, e su varie corde. Sangermano è veramente attore di squisita sensibilità e misura, talmente equilibrato che, ripensandoci, mi sembra che sia merito soprattutto suo se certi effetti (di suoni, di immagini...) non risultano troppo ingenui o compiaciuti. La storia, poi, riguarda talmente da vicino la mia generazione che non mi è facile prendere le distanze da ciò che mi evoca: ma siccome lo evoca in modo onesto e garbato, ho riguardato il film e ho scritto alcune considerazioni: le condivido qui avvertendo che il finale del film è un colpo di teatro da non guastare leggendo queste righe di commento prima di averlo visto.

L'instaurarsi di una incomunicabilità psichica è, forse ancor più della morte, più delle varie forme dell'incontrarsi e perdersi, una separazione straziante la cui messa in scena suscita emozioni in ognuno di noi: ma se de te fabula narratur in ogni caso, giustamente una mia amica mi ha fatto osservare che in questo caso particolarmente ci riguarda come generazione. E non solo, perché non occuparsi dei vecchi è cosa sciagurata quanto non occuparsi dei giovani. Qui si apre il problema del come rappresentarsi, e rappresentare, la vita nella varietà delle sue vicende, incombenza di non poco conto perché in questi territori nessuno può, a ben guardare, insegnare niente a nessuno e nulla è più ingenuo (quando non stupido) del dare consigli sulle emozioni.

Solo in superficie l'insegnamento è trasmettere nozioni e spiegare come si fa, ma il mio lavoro attuale (la psicoanalisi), come quello di prima (l'insegnamento scolastico), non consiste in fondo nel dare consigli o nell'insegnare concretamente alcunché ma nel lasciare un segno, appunto, che trasformi innanzitutto quello che una persona è. Che cosa mi insegna allora "Il ricordo di domani"? La domanda è meglio posta se chiedo che segno mi ha lasciato, perché certo quando ho visto e rivisto il film l'esperienza mi ha trasformato: mi ha coinvolto in una rappresentazione di situazioni storie ed emozioni che in quei momenti sono state anche mie, si sono orientate ed assestate nei miei equilibri interiori, mi hanno fatto sentire in sintonia con quei personaggi che hanno "impersonato" qualcosa anche mio che ora mi appartiene di più.

Già l'inizio mi ha toccato ricordandomi "Wish you were here", uno degli album dei Pink Floyd che preferisco: il brano da cui prende il titolo incomincia proprio con il suono incerto e sporco di una cassetta (o un disco) che enuncia il celebre "riff" per chitarra... ci sono in secondo piano le voci di un uomo e una donna che inquadrano, con realismo, la situazione come esterna al disco, fino a quando pian piano il suono pieno e potente della chitarra registrata in alta fedeltà si impone e apre la strada alla voce di Gilmour, che rivolge parole struggenti di rimpianto e desiderio a qualcuno che non c'è più come soggetto di relazione, pur continuando ad esserci: Syd Barrett, che era stato fondatore e leader del gruppo fino all'aggravarsi dei seri problemi mentali che lo avrebbero poi portato a isolarsi completamente.
Nel film è ancora la musica, registrata e rappresentata come meccanicamente riprodotta, ad innescare le catene associative cui lo sviluppo della storia apre il solco narrativo nel quale incanalarsi e svilupparsi: anche per questo fin dall'inizio sono stato coinvolto e le mie associazioni sono andate al tema doloroso della perdita del contatto mentale con una persona amata. Ma era una associazione mia, il film è fino alla fine aperto a vari possibili sviluppi a cominciare da quello di una vedovanza riempita dalla presenza di ricordi custoditi e curati amorevolmente, sicché una feconda elaborazione del lutto può far vivere le persone anche dopo la morte...  

...ricordo, dai tempi del ginnasio, il bel logo di Loescher con il motto È BELLO DOPPO IL MORIRE VIVERE ANCHORA.  

Infatti il film, fino a due minuti dalla fine, sembra essere in questa logica, mostrando in Fulvio una disponibilità genitoriale generosa e tollerante che fa pensare ad una coppia che abbia molto condiviso: il breve incrociarsi delle vite di Fulvio e Valentina è intenso e ricco di osmosi, come si esprime nella sequenza del saluto in stazione con la tenera restituzione, da parte di Valentina, di affetto riconoscente e accudimento. La scena finale mi sembra un colpo di teatro straordinario, proprio non me l'aspettavo: la ricomposizione degli elementi della storia avviene proprio nella stanza di Valeria, ricostruita amorevolmente in modo che sia in continuità con quella in cui son vissuti insieme (la finezza del tavolino da notte!). Entrambi gli attori (Sangermano e Vukotic) recitano con grande misura e e mi sono parsi molto convincenti: riprendo il discorso di prima ribadendo che questo film non mi ha insegnato nulla ma mi ha segnato profondamente, mostrandomi possibili modi di essere, esprimersi e comunicare che ora sono più possibili anche per me.

Di fronte alla demenza si pongono problemi etici e psicologici che mi trovano molto disarmato: ero un ragazzo quando vidi a teatro Albertazzi in Spettri di Ibsen, e il senso di affanno che provai alla fine è solo contenuto, non risolto, da quel po' di serenità e distacco che posso aver poi accumulato in sessant'anni. Certo son convinto che non vi sia LA cosa giusta da fare, ma molte possibilità nelle quali ci si possa riconoscere a seconda della tavolozza della personalità di ciascuno di noi. Per quanto mi riguarda ho sempre pensato che preferirei morire prima di essere demente, ma ho anche sempre coltivato il dubbio che fosse, questo, un atteggiamento orgogliosamente narcisistico ed egocentrico... in fondo basta prendere un po' le distanze per vedere che concentrarsi sulla propria "bella intelligenza" rischia di essere, magari solo un'ottava sopra, lo stesso modesto tema del concentrarsi sul proprio ombelico. Non che sia da rigettare a priori, può andar bene in certi casi, quasi sempre direi (e penso all'eutanasia chiesta e ottenuta in Belgio da Hugo Claus quando si rese conto del progredire della malattia di Alzheimer), ma certo Fulvio testimonia di un possibile amore che non solo è più forte della morte, è anche più forte della demenza e riesce a colmare tutto ciò che separa i bellissimi occhi ridenti di Valeria giovane dagli occhi bellissimi e persi che non lo riconoscono. E ora, mentre scrivo, la gola mi segnala che mi commuovo pensando a mia madre che, giunta ormai oltre i cento anni, qualche volta non mi riconosceva o mi scambiava con qualcun altro, e aveva di molto ristretto la sua capacità di interagire, e tuttavia era la mia mamma da nove mesi prima che io nascessi, con in sé tutte le nostre storie, e se la vedevo ridere o ricordarsi di noi o mangiare volentieri mi intenerivo... alla fine mi bastava che non soffrisse. Parecchi anni prima, di fronte a mio padre ormai in coma irreversibile, concordò con noi sull'opportunità di sospendere ogni pratica che configurasse accanimento terapeutico e disse piangendo "Io lo terrei anche così, ma mi rendo conto che per lui è meglio che lo lasci andare", e allo stesso modo mio fratello e io la lasciammo andare: era il 23 luglio 2018.

I temi del dolore fisico e psichico, della morte e della demenza sono terreni di pascolo per i portatori di certezze: qualcuno ha scritto che le idee forti sono ideali per le menti deboli, come anche le vicende attuali stanno mostrando, ma l'arte (in questo caso il cinema) può darci occasioni per sperimentare nuove fantasie e nuovi sogni, per avventurarci in quelle "prove col pensiero" che ci permettono di tener conto della capacità di ricordare e immaginare oltre che di agire. Il mondo degli umani ha leggi ferree (a volte, trattando di ricchezza e povertà, dicono bronzee) che ci vengono spacciate come immutabili: l'arte, certo, e la filosofia e la psicoanalisi e l'insegnamento non cambiano direttamente il mondo, tuttavia ci danno il potere di immaginare il cambiamento, di sognare nuovi mondi e nuovi modi di vivere, di condividere questi sogni e farne materia del vivere concreto (mica ci si contagia solo di coronavirus!), dunque di trasformare la realtà. Poco o tanto funziona sempre... purtroppo anche con gli incubi.

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