Cercando di capire:

perché questo titolo?

Quando, all'inizio degli anni sessanta, vidi il film Come in uno specchio di Ingmar Bergman, fui colpito anche dal titolo, che è una citazione dalla lettera di Paolo ai Corinti: "ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia." Forse le parole di Paolo risultano più efficaci se pensiamo che ai suoi tempi gli specchi erano lastre di bronzo lucidate...

Un gioco magistrale su questo tema è quello di Jan van Eyck (1390-1441) nel Ritratto dei coniugi Arnolfini: il centro della scena è occupato da uno specchio convesso appeso al muro sullo sfondo, e nello specchio si vede riflessa la scena che il quadro rappresenta: deformata, oscura, in altra prospettiva e da altro punto di vista... come non pensare al mito platonico della caverna e alla metafora di Paolo di Tarso?

fonte dell'immagine: https://www.eurographics.ca/en/1700-62067.aspx?o=1700P-62067 

La nostra visione delle cose è confusa e oscura come in uno specchio, e Paolo di Tarso pensa che un giorno vedremo la verità in faccia; su questa terra possiamo solo prendere atto dei nostri limiti, e cercare di indagare e decifrare ciò che vediamo in modo parziale, distorto e frammentato.

Mi ha sempre affascinato il tema del rapporto fra la realtà fuori di noi e la rappresentazione che noi ne abbiamo: ovviamente il modo di dire credo a quello che vedo è ingenuo, perché è facile correggerlo in credo a quello che credo di vedere... e dicendo quello che vedo intendiamo tutto ciò di cui si ha esperienza. In ogni caso la nostra esperienza, per esserci realmente utile, deve essere approfondita e controllata continuamente, messa alla prova come ci suggerisce un altro motto che esorta a non fermarci alle apparenze.

Quando incominciai a praticare la psicoterapia (a metà degli anni '80) erano ancora in auge le cosiddette "radio private", molto ascoltate non solo per la musica ma anche per i contenuti. Presso una di queste radio (Teleradiocittà, se non ricordo male) tenni per un certo tempo una rubrica che ebbe titolo "Cercando di capire": ogni puntata durava circa un'ora, io parlavo per mezz'ora di argomenti di carattere psicologico poi si apriva il dialogo con gli ascoltatori.

Andando più indietro nel tempo, (fino al 1983 ho insegnato Scienze umane e Storia per una ventina d'anni) ricordo che cercavo di proporre lo studio proprio come un lavoro paziente, rispettoso ma anche irriverente, di scomposizione e ricomposizione critica della conoscenza. Un esempio che spesso portavo era quello dell'orologiaio che smonta, rivede, controlla e rimonta gli orologi, e anche se debbo ammettere il vantaggio che mi dava insegnare materie come Storia, Filosofia e poi Psicologia, è pur vero che questo atteggiamento apparteneva alla mia personalità fin dall'infanzia. E proprio da ragazzino lo misi letteralmente in pratica quando presi una vecchia pendola e la smontai, dimostrando che la curiosità, certo necessaria, non è in sé sufficiente per il progresso della conoscenza e il miglioramento della realtà: infatti riuscii con entusiasmo nell'opera di scomposizione e di esame accurato delle parti ma non riuscii a rimettere insieme il meraviglioso meccanismo. Anche se non subito, da quell'esperienza appresi che prima di addentrarsi nei labirinti conviene garantirsi la possibilità di uscirne senza troppi danni, il che spesso significa fare "prove col pensiero" prima di agire in modo non reversibile.

A ben guardare, il ragazzino che smontava l'orologio era ancora ben presente nel giovane professore di liceo che smontava le certezze dei programmi e dei metodi della scuola con l'intento (magari la velleità, lo ammetto) di controllare come stessero realmente le cose, e quando mi appassionai di psicologia e psicoanalisi ancora si poteva riconoscerlo, quel ragazzino, intento a mettere in dubbio gli schemi rigidi e le certezze illusorie che tanto spesso rendono rigido, finto e infelice il nostro vivere. Non certo sostituendo certezze con altre certezze, ma cercando e offrendo solidarietà e vicinanza nella ricerca di una libertà interiore che, sola, può rendere la vita degna di essere vissuta. Prendendo a modello il buon Socrate, il suo atteggiamento umile e ardito di chi non sa ma non finge di sapere, di chi cerca nella relazione con l'altro la condivisione della ricerca di consapevolezza. Cercando di capire, appunto.


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