Su Noa Pothoven
19 giugno 2019
Riflessioni in margine al caso di Noa Pothoven
Una decina di giorni fa sul sito dell'associazione Libera Uscita, della quale sono socio, è stato pubblicato un articolo sul caso di Noa Pothoven: se ne parlava molto, informazioni e opinioni ribollivano in continua contraddizione, e mi parve giusto cercare di affrontare la cosa con un minimo di distacco. In effetti mi era stato chiesto di intervenire alcuni giorni prima ma, come scrissi alla Presidente, non me ne sentivo in grado, ero troppo arrabbiato con varie persone, dal Papa a Recalcati. Poi mi sono sentito in grado di condividere qualche riflessione, così è nato l'articolo: lo ripropongo.
Mi capitò, anni fa, di cercare un indirizzo in un quartiere periferico di una città che non conoscevo. Avevo avuto indicazioni abbastanza dettagliate, ma non riuscivo a trovare Via Calatafimi, così chiesi informazioni a un gruppo di operai che lavoravano sulla strada: mi dissero come fare a trovare via Calatafimi, ma con mia grande delusione non la trovai. Da una cabina telefonica (non c'erano ancora i telefonini) chiamai la persona che dovevo raggiungere e scoprii che ero fuori strada, non mi avevano dato indicazioni giuste. Ritrovai lungo il percorso quegli operai e mi fermai a chiedere come mai mi avessero dato indicazioni sbagliate: con imbarazzo mi dissero che ero così desideroso di avere una risposta che me l'avevano data, poiché avevano l'impressione che la strada che cercavo fosse da quelle parti e, secondo loro, dovevo proprio andare di là.
Sosteneva Hume che gli uomini, più che desiderare di fare il bene, desiderano sentirsi buoni. Ampliando il concetto, si può certo sostenere che molti comportamenti non sono ragionevolmente ordinati al raggiungimento di un fine ma piuttosto al bisogno di esercitare una qualche forma di controllo sulla realtà, a dare risposta a situazioni problematiche e dolorose. Quante volte sentiamo argomenti del tipo "bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di non restare inerti e senza iniziativa"! Basti pensare ai danni alla salute e all'integrità fisica causati da soccorsi prestati in modo maldestro.
Il caso atroce della giovane Noa Pothoven ha avuto un forte risalto in questi giorni, è stato presentato e seguito con grande partecipazione emotiva: particolari narrativi, immagini, commenti e prese di posizione contrastanti, uniti a una narrazione spesso di basso livello e credibilità, hanno prodotto uno stato di forte tensione emotiva e di destabilizzazione. E molti di noi si sono in qualche modo sentiti tirare dentro la situazione: la narrazione così forte e dettagliata della vicenda ci ha fatto sentire Noa vicina, ci ha messi nella condizione di DOVERE riprendere il controllo dei nostri schemi di comprensione e dei nostri modelli di risposta. Il guaio è stato che questo sconcerto ha sì preso, come del resto accade di solito, le persone meno abituate a praticare la riflessione e l'elaborazione critica, ma anche coloro ai quali di solito si fa riferimento, ai quali riconosciamo il privilegio e l'onere di aiutarci a capire.
Innanzi tutto c'è stato l'ennesimo tradimento da parte dei mezzi di informazione: si dice tanto, di solito tanto male, dell'internet, ma stavolta sono stati i giornali cartacei, incluse le testate più prestigiose, che anziché andare a vedere come realmente stessero le cose hanno rilanciato e amplificato versioni scandalistiche (e scandalose) della vicenda, prendendo come fonte giornali stranieri . E non olandesi, non tradizionalmente credibili come il New York Times o Le Monde, ma un giornale di basso profilo come il Daily Mail. Sicché, a quanto pare, in Olanda avrebbero appreso dal Daily Mail e dai giornali italiani come ci fosse stato un caso così straziante di eutanasia. Prima che la vicenda venisse ricondotta a una narrazione corretta, l'onda emotiva si è gonfiata e ha coinvolto personalità di spessore dal papa a Recalcati . E quasi nessuno ha resistito al senso di impotenza che la morte di Noa gli ha scatenato dentro: poco più che bambina, con quel viso dolce e disperato, con l'incessante ripetizione della storia della sua infanzia violata… come non sentire una fitta dentro? Come non sentirsi invasi da quel dolore?
Dal punto di vista della psicoanalisi il dolore (il dolore mentale, intendiamoci) tende a porsi come un'esperienza di passività e di annientamento intollerabile, e dunque il problema sembra porsi nella costruzione di un un'attitudine interiore che superi il puro SENTIRE il dolore (qui inteso come un vissuto impossibile da descrivere in parole, sul quale non si riesce a fare associazioni) per sviluppare un'attitudine interiore a dargli parole e dunque a fare associazioni e renderlo parte della propria vita psichica conscia: tutti siamo capaci di sentire il dolore, la psicoanalisi si pone il compito di imparare a soffrirlo (Bion). Nel linguaggio quotidiano dolore e sofferenza vengono spesso usati come sinonimi, ma per la psicoanalisi dolore mentale e sofferenza psichica sono due concetti ben distinti: anche dal punto di vista etimologico, del resto, dolore deriva dal latino dolere (sentir pena) mentre la sofferenza ha radice nel latino sufferre, parola composta da sub (sotto) e ferre (portare) e dunque equivalente al nostro sopportare ("Iniuriam non facere, sed et factas patienter sufferre", raccomanda San Benedetto ai suoi monaci).
Ancora, nel pensiero di Bion molte emozioni (in primis la rabbia) hanno la funzione di non farci sentire il dolore, il nostro o quello altrui quando in esso ci identifichiamo: penso che il modo di esprimersi citato sopra ("bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di non restare inerti") ne sia efficace esempio. Del resto, sempre Bion parlava di attività psichica protomentale e di elaborazione del pensiero cosciente con la bella immagine di pensieri che cercano il pensatore, e se non lo trovano vengono "evacuati" sotto forma di allucinazioni, sogni e incubi, deliri, agiti o malattie.
Di fronte al caso di Noa mi pare sia accaduto qualcosa di simile: il dolore di sentirsi impotenti di fronte all'urgenza di avere risposte certe si è spesso scaricato nella frettolosa accettazione di distorsioni della realtà, negli agiti di risposte non ben calibrate, in aggressività (quanti attacchi alla cultura della morte!). A mio parere le domande estreme richiedono prudenza, anche se stimolano a risposte decise: tutti hanno insistito sulla insostenibilità del lasciare andare la vita verso la morte, sulla necessità di essere vicini a chi soffre e sullo scacco delle terapie e del discorso educativo del nostro tempo, ma non sembra che in concreto le alternative a ciò che è accaduto (accompagnare Noa, con amorevole compassione, nella sua libera uscita da una vita che da anni trovava intollerabile) andassero oltre l'ulteriore imposizione di trattamenti invasivi e mortificanti. Senza parlare dell'implicita svalutazione del comportamento dei suoi familiari che, certo con strazio, hanno infine accolto la sua scelta e, probabilmente, sono ora quelli che più di ogni altro debbono fare i conti con tale dolore.
I problemi della bioetica sono su una linea di confine delicata fra una tradizione che non è più sufficiente a guidarci e la ineludibile esigenza di linee di condotta condivise: in una visione laica queste linee di condotta non esistono già pronte, non sono deducibili secondo alcuna rigorosa logica da certezze eterne, ma vanno costruite con pazienza e umiltà, sapendo che in ogni caso la linea di confine si sposta e ci propone sempre un "oltre" con cui prima o poi si debbono fare i conti. Per questo le certezze possono essere solo interlocutorie, e le domande non possono avere risposte definitive ma solo ulteriori, più complesse domande.